L’account Google di una donna è stato bloccato dopo che il figlio ha pubblicato per gioco un video su YouTube che però violava le regole della piattaforma.

Google gestisce ogni giorno miliardi di dati e fra la grande quantità di essi è inevitabile che vi siano elementi che violano i termini di utilizzo delle piattaforme. In questo caso l’azienda può, ad esempio, bandire un sito dai suoi risultati di ricerca o rimuovere applicazioni dal Play Store, ma anche semplicemente chiudere l’account Google di un utente.

Quest’ultimo è il caso di Jennifer Watkins che ha ricevuto un’e-mail da Google che le comunicava la chiusura del suo canale YouTube. Alla donna è parso strano, principalmente perchè non usava YouTube. Ben presto però si è resa conto che il problema non riguardava solo la piattaforma video. Il suo account Google era stato sospeso e aveva perso l’accesso a tutti i servizi ad esso associati.

Esaminando le e-mail ricevute, ha notato che la sospensione era dovuta al fatto che aveva caricato un video su YouTube. Come detto, la donna non era solita utilizzare YouTube, ma i suoi figli di sette anni sì, ed erano stati loro a caricare il video. I bambini, utilizzando un tablet collegato all’account Google della madre, pubblicavano video in cui si esibivano in balli divertenti. Generalmente non ottenevano più di 5 visualizzazioni, ma il contenuto dell’ultimo video non è passato inosservato a Google poiché riguardava uno dei suoi figli e in particolare il suo sedere. Indagando è venuto fuori che il bambino era stato sfidato da un compagno di classe a “fare un video nudo”. Google lo ha individuato pochi minuti dopo la pubblicazione e lo ha segnalato come possibile sfruttamento sessuale di un minore.

Un gioco “innocente” ha portato una madre a non poter più controllare le e-mail di lavoro, l’agenda, rispondere ai messaggi della banca e molto altro, oltre a provocarle un danno finanziario, come affermato dalla donna stessa.

Google consente alle persone di appellarsi contro le sue decisioni compilando un modulo, ma nonostante il fatto che la donna abbia seguito la procedura cercando di spiegare l’accaduto, il suo appello è stato respinto, e più volte. Un agente di Google le ha risposto che, anche se il figlio non aveva cattive intenzioni, si trattava comunque di una violazione della politica aziendale.

A questo punto la donna ha contattato il New York Times per raccontare la sua storia. Sembra che alla fine ci sia stato un chiarimento e che la vicenda si sia conclusa positivamente. Questo non è un caso isolato e sottolinea sia quanto possa essere complesso gestire tutto ciò che concerne la tutela dei minori sia quanto sia importante prestare molta attenzione a ciò che i nostri figli fanno con i loro dispositivi.

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Carolina Napolano
La tecnologia, roba da donne: ecco la blogger per promuovere il lato rosa della tecnologia.